di Ilaria Ronzoni
‘’Vediamo sempre di più con gli occhi degli altri. […] Si finisce col rinunciare alla propria visione che ci pare così povera rispetto a quella elaborata da migliaia di specialisti della comunicazione visiva. E a poco a poco il mondo non è più cielo, terra, fuoco, acqua: è carta stampata, fantasmi evocati da macchine sempre più perfette e suadenti” Ugo Mulas.
Si apre così, con una citazione, la mostra personale ‘’Ugo Mulas- L’operazione fotografica’’, ospitata nelle sale di Palazzo Reale dal 10.10.2024 al 02.02.2025.
Titolo che, riprendendo i primi studi sul concetto stesso della fotografia, tramite il ciclo de ‘’Le Verifiche’’, esposte nella prima sala, ci preannuncia l’estrema versatilità e profondità di significato di una densa, sebben breve, ricerca artistica del fotografo italiano, dalla fama internazionale.
Operazione complessa e concettuale, quella portata avanti con le sperimentazioni qui presentate: si tratta di immagini che hanno per soggetto la foto stessa, l’idea: la privazione della funzionalità dell’operazione fotografica, giungendo al grado zero dell’arte, alla vita indipendente della pellicola: ogni scatto è legato ad un elemento chiave per l’atto di realizzazione.
Una fotografia, quella di Mulas, che si concretizza non come una mera documentazione, bensì, ricercando un’interpretazione critica e personale della realtà, come lui stesso ammette affermando: “Al fotografo il compito di individuare la sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità”.
Una preponderante inquadratura centrale, l’assenza di colori sovrastrutturati, l’essenzialità: sono solo alcuni elementi che coerentemente e costantemente scandiscono le 14 aree tematiche della mostra che, con più di trecento tra fotografie, cataloghi e libri, illustrano la moltitudine di interessi dell’autore.
Presentato come ‘’l’artista che si approccia agli artisti’’, Mulas, è maggiormente -ma non unicamente- conosciuto per gli scatti dedicati all’arte e ai suoi autori, come illustrato nelle quattro sezioni dedicate rispettivamente a Duchamp, Melotti, Calder e Fontana.
Il fotografo si fa portavoce di un bisogno crescente come mai nell’ambito delle arti visive: dallo sviluppo dell’arte concettuale, con Duchamp, non si avverte più la volontà e il bisogno di immortalare un’opera conclusa, la fine del progetto, il risultato; bensì un gesto, il momento di spinta artistica, una sequenza che precede la realizzazione stessa: il processo si fa portavoce dell’idea, l’arte stessa si concretizza nell’idea; le immagini si interrogano sull’atto, sulla durata: non esiste più l’attimo decisivo.
Ed è in questo che risiede l’innovazione degli scatti presentati nelle sale centrali dell’esposizione.
‘’Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande, con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire che l’operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte.’’ (Ugo Mulas).
Un processo creativo che può essere osservato non solo negli scatti dedicati a Fontana, chiamati ‘’Attese’’, citando l’opera reale dell’artista, agli albori della stesura del Manifesto Spazialista, ma anche nella sezione dedicata al rapporto tra opera e contesto nella sezione denominata ‘’Interno ed Esterno’’.
Mulas si fa portavoce del processo messo in pratica del critico Giovanni Carandente nelle strade di Spoleto: decontestualizzare l’arte spostandola dalla stabilità dello studio dell’artista alla quotidianità cittadina, permettendo all’opera di interagire e modificare i luoghi, mutando a sua volta, creando così una riflessione sulla contingenza del rapporto tra arte e spazi.
Spazi che diventano luoghi, esperienze, storie.
Con queste premesse il fotografo presenta Milano e, con particolare interesse, un locale: l’eclettico e bohémien Bar Jamaica, ritrovo delle nascenti avanguardie, dei nuovi circoli artistici e dei nuovi protagonisti della pittura come Manzoni.
Si narra sia stato qui che, Ugo Mulas, grazie ai consigli del fotografo Mario Dondero, sia entrato per la prima volta in contatto con la macchina fotografica, compiendo prove e studi su quelli che lui stesso definirà soggetti ‘’banali’’, essenziali, dal gusto neorealista e che rimarranno costanti per tutta la sua carriera.
“Quelle vecchie fotografie di gusto neorealista mi sono care, sono i primi tentativi di stabilire un contatto fotografico con una realtà. Avevo voglia di mettere a fuoco un messaggio di cui mi sentivo portatore, e al tempo stesso volevo individuare il filo portante più diretto che collega la gente, gli episodi, i fatti, i luoghi.’’
In questa sezione, la maggiore per numero di inediti, viene immortalato il volto d'una città in evoluzione, irriconoscibile forse, agli occhi più contemporanei.
L’interesse per i luoghi e per la quotidianità lo porterà, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, ad esaminare la vitalità mondana in numerose città europee ed italiane; i reportage presentati non hanno mai carattere documentaristico, bensì narrativo: il fotografo fornisce una visione nuova sul contesto rappresentato.
Da sempre interessato alle realtà culturali adiacenti o contrapposte a quelle conosciute, vede negli Stati Uniti un modello di sviluppo artistico innovativo.
Non possiamo, quindi, non citare l’ampia collezione di scatti dedicati a New York, alla nuova generazione di pittori espressionisti e agli esponenti della Pop Art: grazie alla connessione con Duchamp e alla stretta amicizia con Leo Castelli (conosciuto durante i servizi fotografici per la biennale di Venezia, tra il 1954 e il 1964), Ugo Mulas riesce ad analizzare da vicino uno spaccato della vita artistica americana durante la sua permanenza nella metropoli e ad analizzare e ritrarre il processo creativo di Warhol, Lichtenstein, Newman, Johns, Segal, Stella.
‘’A New York nessuno mi aveva mandato, mi ero mosso da solo, volevo capire ed essere testimone. Andavo negli studi senza sapere l’inglese, pronunciando appena le parole indispensabili, cercavo di non occupare posto, di non farmi sentire, di non intralciare il lavoro che facevano gli artisti. (...) Per alcuni pittori il non fare è più importante del fare.’’
Definito ‘’fotografo totale’’ da Germano Celant, Mulas non si limitò mai ad analizzare solo una cerchia ristretta delle possibilità del reale: grande interesse, sviluppato e arricchito per tutta la carriera anche grazie alla collaborazione con la rivista Vogue, è il tema del ritratto.
Citando maestri ritrattisti del passato come Nadar, coglie l’essenza della poetica di quest'ultimo: la necessità dell’incontro, dello scambio di sguardi, la consapevolezza dell’essere immortalati: rinunciando all’idea dell’esistenza di un ‘’ritratto rubato’’, Mulas, amplia il concetto alla base della volontà di cogliere la profondità del soggetto ritratto, allontanando la superficialità ed il giudizio, creando immagini di intima riflessione e dialogo con alcuni dei maggiori designer, pittori e scrittori ed intellettuali del tempo come Renato Guttuso, Mario Schifano, Emilio Vedova e Maria Callas.
Sottolinea: «Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina, e non fa altro che posare (…) Nessuna finzione verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile».
Ed è con uno dei promettenti scultori del secondo dopoguerra, Arnaldo Pomodoro, che il fotografo bresciano analizza la potenzialità del nudo femminile, contrapponendosi alle geometrie dei gioielli realizzati dall’artista, soggetto ed oggetto entrano in una relazione nuova, innovativa, reciproca: "fotografare una scultura vuol dire leggere la scultura, vuol dire darle uno spazio, una luce e un punto di vista’’, il corpo si fa scultura, affiancando l’opera d’arte.
Il corpo della modella, negli scatti veneziani presenti nelle ultime sale dell’esposizione, riprende una tradizione storicizzata da grandi autori come Brancusi o Modigliani, diventa scultoreo: ombre, volumi e profondità del gioiello dialogano con le forme corporali della modella.
Un sodalizio, quello con la moda, definita come risultato creativo, che durerà tutta la carriera di Mulas; collaborando come fotoreporter con grandi marchi come Gucci e Valentino, dimostrandosi, ancora una volta, uno dei fotografi più versatili ed abili ad intrecciare interessi fornendo un’immagine di sé polivalente ma sempre coerente.
«Era tanti fotografi in uno. Non solo era uno straordinario ritrattista, ma era anche uno straordinario fotografo di città e di contesti urbani, come dimostrano gli scatti su Milano agli esordi della carriera, oppure quelli su Venezia, città che ha amato in maniera viscerale e che ha ritratto ininterrottamente nel corso degli anni. Ed è anche un fotografo concettuale, fa un’operazione meta fotografica, va oltre la fotografia intesa come riproduzione di ciò che si vede».
Alberto Salvadori, direttore del suo archivio.