di Valentina Trentini

Dal 12 settembre al 12 gennaio Pirelli Hangar Bicocca presenta la prima mostra antologica in Italia dedicata all’arte di Saodat Ismailova, una delle artiste contemporanee più innovative, che interseca suono, cinema e arte visiva. La filmmaker nelle sue opere raccoglie le narrazioni di diverse generazioni e riflette sul delicato rapporto tra natura e ambiente, partendo dalla memoria collettiva, che si tramanda, di persona in persona, di civiltà in civiltà.

A intersecarsi su grandi tele luminose che riempiono l’hangar lasciato senza luce sono ricordi, paesaggi, ricordi di paesaggi. La mostra si apre con “Stains of Oxus”, un video su tre pannelli in cui viene seguito il corso del fiume Amu Darya dalla sorgente nelle montagne innevate del Pamir fino alle rive del deserto di Aral. Con lo scorrere del fiume e dei fotogrammi, l’artista permette allo spettatore di assistere all’inaridimento di una regione e alle conseguenze che ciò porta agli abitanti dei villaggi lungo le rive. Ogni immagine è un ricordo, o un sogno, ma anche una presa di coscienza, data dall’alternarsi tra presente e passato, tra un fiume in piena e un ecosistema distrutto. I sogni e i ricordi diventano il modo di entrare in contatto con i propri antenati, i propri semi, e lasciarli vivere.

Saodat Ismailova
Stains of Oxus, 2016
Veduta dell’installazione in Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024
Prodotto da Le Fresnoy, National Studio of Contemporary Art, Francia
Courtesy l’artista © Saodat Ismailova e Pirelli HangarBicocca, Milano
Foto Agostino Osio
Saodat Ismailova
Stains of Oxus, 2016
Saodat Ismailova
Stains of Oxus, 2016

Un’altra tela, altri fotogrammi, altri ecosistemi che di sistema non hanno più nulla. “The haunted”, un’installazione video intersecata a quella precedente che affronta la storia dell’estinzione della tigre del Turan, un animale considerato archetipo sacro e simbolo di protezione. L’artista fa seguire immagini di una tigre siberiana, la specie ancora esistente più simile alla tigre del Turan. Ma i semi son diversi, i semi sono l’origine, e origini diverse non possono dare lo stesso aspetto. 

Per chi ha occhio per vedere e orecchio per ascoltare, già soltanto queste prime immagini narrano una critica ai sistemi sociali, alla mancata attenzione per un ambiente che ci ha fatto da seme, da guscio, da ventre.Sarà forse perché l’uomo pensa di avere migliaia di ambienti a disposizione? Saodat riprende il pensiero di Sohrawardi, un filosofo persiano del XII secolo, secondo cui noi viviamo uno dei 18.000 mondi che compongono l’universo. E così, in “18.000 Worlds”, attraverso un montaggio di filmati raccolti dall’archivio dell’artista, troviamo immagini di luoghi di recupero archeologico in Kazakistan, che l’autrice associa all’azione di restauro. Per l’autrice, il recupero è strettamente connesso al restauro ed entrambi sono necessari alla conoscenza, al piantare semi di una cultura ormai scarseggiante. Se non c’è memoria cosa ci resta? Il ricordo evoca pensiero e viceversa.

Saodat Ismailova
18,000 Worlds, 2023

Ed è proprio attraverso uno dei luoghi che maggiormente chiede a chi lo visita di ricordare che Saodat Ismailova ci chiede di prestare attenzione ai nostri semi. In “Chillahona” viene esplorato il senso di vuoto e di solitudine a cui spesso si assiste nei cimiteri. L’opera è composta da un film e un ricamo, presentati per la prima volta alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2022. Di fianco alla proiezione è allestito un ricamo tradizionale dell’area di Tashkent, che dovrebbe rappresentare la sfera celeste. O il filo per connettere i nostri ricordi, apparentemente in modo logico e ordinato. Il termine che dà il titolo all’opera si riferisce all’ambiente sotterraneo un tempo impiegato in Uzbekistan per praticare un periodo di autoisolamento di 40 giorni. La donna ritratta durante questa pratica esorcizza i propri ricordi cercando un appiglio a cui aggrapparsi. Ma perché farsi soli, farsi vuoti, alla ricerca dell’immortalità? Forse per capire di che riempirsi nei giorni mancanti.

Saodat Ismailova
Chillahona, 2022

Tutti i significati e i significanti delle installazioni vengono racchiuse in una piccola scultura oro finale, a forma di seme di dattero, “The seed under out tongue”. Il seme, nelle iconografie più note, è l’origine, è la speranza di una nascita, di una crescita. Ma senza cura, senza desiderio, non vi saranno germogli. Per questo l’artista conclude la mostra racchiudendo il suo seme, la sua conoscenza, la sua volontà, in un’icona minuta dal potere straordinario: donare continuità.

Saodat Ismailova
The Seed Under Our Tongue, 2024