È in mostra al MUDEC di Milano Jean-Michel Basquiat: uno dei pochi street artist ad aver portato la sua arte, dalla strada, alle più importanti ed inaccessibili gallerie di New York.
Lui: personaggio affascinante, dannato, viveva in un mondo tutto suo, è riuscito a stregare gli sterili galleristi bianchi, dipingendo pura arte nera, con richiami alle sue origini africane, mischiate agli occidentalissimi personaggi dei cartoons, per denunciare una società sbagliata, che strapagava le sue opere, acclamandolo come grande artista, ma che al contempo lo giudicava per il colore della pelle. Lui, da quella pelle, però, non poteva scappare - e ne era ossessionato: a volte si dipingeva di bianco, ma con i capelli rasta in acrilico nero. Poi con la corona, simbolo di potere, quale potere?
Questo il fervore con il quale si viene accolti in mostra, fin dal primo passo al suo interno: ogni pannello esplicativo ci fa conoscere un pezzo della brevissima, ma affascinante ed intensa vita di Basquiat.
Più esaustive di ogni spiegazione, sono, naturalmente, le opere.
In principio ci si ritrova davanti ad un linguaggio forte ed esplicito. Le sale vanno in ordine cronologico ed il periodo artistico iniziale racconta una denuncia sociale, firmata con il nome di SAMO: “same old shit”. Il colore vibrante usato, conferisce alle tele visibilità immediata ed una grande forza. Il suo tratto è deciso, non si può rimanere impassibili.
Dopo lo stupore, inizia il fascino. Compaiono una serie di segni ripetitivi, che messi assieme formano un codice, unico, di Jean-Michel Basquiat.
Ogni artista ha un codice tutto suo. Ricordo l’ultima volta in cui ho pensato di essere di fronte ad un preciso linguaggio simbolico, volto a comunicare un messaggio specifico da parte dell’artista; è stato alla mostra di uno dei più brillanti esponenti del surrealismo: Joan Mirò. Certi artisti creano un vero e proprio alfabeto, in cui ogni segno è simbolo di qualcosa di etereo. Non sempre il mittente siamo noi, talvolta il loro è uno sfogo personale, un modo per calmare la rabbia che hanno dentro e per gridare, come possono, i loro ideali. È forse questo il caso di Jean-Michel Basquiat?
Le opere successive diventano sempre più ermetiche ed indecifrabili, le parole ne diventano quasi protagoniste assolute - ed il mistero cresce.
Ogni sala ci fa scoprire sfumature della sua personalità. Razzismo, lotta al potere, ricordi dell’incidente avuto da bambino, nostalgia della terra d’origine: queste le tematiche presentate in tempera acrilica, o con l'evidenziatore su tela, su legno, su cartone, su porte, su finestre, su oggetti raccolti dalla strada.
Sono belli i colori, il linguaggio semplice ed efficace, il mistero che si cela dietro quel suo codice speciale, la grandezza delle tele che ti ci fa immergere dentro e la vivacità di quel suo giallo-ocra ricorrente, come un ricordo nostalgico di una terra lontana.
Risulta, così, una mostra bella, stimolante, breve, ma ricca, che lascia il giusto tempo allo spettatore di godersi appieno il linguaggio stonante di Basquiat e che si conclude in grande: l’ultima sala è dedicata ai duetti con Andy Warhol.
Unica nota negativa? Il prezzo. 12€ l’intero e 10€ il ridotto, da sommare ai 5€ di guida (sempre utile). Forse un po’ troppi per una mostra tutto sommato breve.