di Fausto Bosio
Riflessioni sparse emerse come un sottomarino turchese, dopo aver visitato Disembody, mostra di Manuel Scrima, presso Fabbrica Eos.
C'era una volta l'uomo vitruviano di Leonardo, inscatolato in una geometria sartoriale che lo inquadrava indolente e lo circoscriveva alla perfezione. L'uomo di Manuel invece non sta comodo nel suo recinto, le pose sono più ellenistiche che classiche: disegnano equilibri lontani dal loro ombelico. Stanno smettendo di essere canoni.
La tecnica di Manuel è fotografica ancora prima che venga usata la macchina fotografica. I soggetti sono inseriti in cubi bianchi. Tra loro e il mondo garze, stoffe, sipari e loro tra i vostri occhi e una fonte di luce, un’eclissi di kore/kouros. Le loro proiezioni sono fissate nella trama dei tessuti, fatte ombre materiche. Una camera oscura primitiva. Ma questa costruzione è solo il primo passo.
I soggetti sono solidi platonici moderni, sbilenchi, sfocati: il mito della caverna di Platone viene attualizzato. I modelli se ne sono andati, ci restano le loro proiezioni: le loro silhouette che hanno perso vita e storia si sono riempite di eternità a tinta unita come quando Matisse ricavava sagome dal blu come se tenesse un paio di forbici al posto del pennello.
Sbilenchi, vagamente fuori fase: c'è uno sviluppo nella serie delle Maschere: le sovrapposizioni sono scelte asimmetriche. E se le prime opere sono ordinate e precise come un caleidoscopio di carne e grane, in opere successive, la perfezione si slabbra: le maschere diventano un paesaggio inesplorato e vagamente dissonante. Manuel non cerca la perfezione umanistica dello specchio, sa che l'uomo vitruviano è un'astrazione. I corpi sovrapposti sono le lancette di un orologio, i tasti neri di un pianoforte.
Nel Mosaico la tecnica di Manuel sembra stilizzata come nei capoversi rinascimentali. Ogni tessera è un gioco, una lettera, un colore: un micro test di Rorschach irripetibile isolato. La parola in una storia. Sono mobili e intercambiabili come in un abbecedario o come sillabe indistruttibili In una Bibbia di Lutero in velcro e quarzo.
Molte opere sono veri e proprio giochi logici (per lo spettatore più annoiato, e spesso io lo sono) istintivamente gestaltici: le quasi-stesse figure ripetute, sovrapposte, hanno perso la loro identità, sono pezzi di geometria umana: cuori, seni, vulve: stilizzazioni inconsce di vasi e anemoni. È difficile sfuggire dall'imperfezione dell'abbrivio fra visione e memoria.
Come si nota in Sfinge, Afrodite e soprattutto in Artemide la resa della grana è costruita a tavolino fin dall'inizio, dal telo che funge da pellicola nella camera oscura paleolitica, non si è ottenuta dall'utilizzo del materiale nell'assemblaggio finale. L'aspetto democraticamente industriale del lavoro di sintesi (dalle fotografie alle stampe) è dato dall'utilizzo del plexiglass e/o del vetro: basi trasparenti: acqua limpida, acqua torbida. Smontare l'opera produrrebbe altre opere più semplici, non materiali grezzi.
La mia opera preferita è Incastro: non so, ha una connotazione smaltata, vagamente autoerotica e fiamminga (intendo Bosch) che mette in crisi la visione prettamente cerebrale che emerge altrove. quei ciondoli ottocenteschi, un po' ex voto un po' pegni d'amore, nei quali i due ritratti sui coperchietti si baciano una volta che clic - vengono chiusi: questa bestia con due schiene che è una sola persona, a guscio: un ermafroditismo platonico di cui ci resta, infine, solo la sagoma.
Due righe su Fausto Bosio: classe 77, bresciano, impiegato nerd. Interessato alla lettura, quarantanni di inediti ai quali rimediare; fondatore e teorico del faustismo: il più breve, sfortunato, totalitarismo culturale individuale della storia.