“Manet e la Parigi moderna” è il titolo dell'ultima mostra inaugurata a Palazzo Reale di Milano e dedicata al noto pittore francese.
Forse, però, sarebbe stato più adatto chiamarla “La Parigi moderna, gli impressionisti e Manet”. Perché dell’artista in questione, a mio parere, c’è ben poco.
Manet è uno dei più grandi nomi della pittura francese della seconda metà dell’800. Un rivoluzionario che aprì la strada a quei pazzi che furono gli Impressionisti. Uomini poco acclamati dai propri contemporanei, cresciuti in un periodo storico in cui l’Artista stava perdendo la sua originaria funzione, senza sapere più bene quale fosse il suo ruolo nella società, cosa dipingere e per chi.
Questi uomini, la cui maggior parte acquisì fama solo post-mortem, ebbero il coraggio di dipingere per se stessi. Di dipingere per curiosità. Di dipingere per amore.
Manet è stato un inconsapevole innovatore. Egli non si definiva tale e nemmeno veniva visto così dai suoi contemporanei. Era affascinato dalla luce nei dipinti di Giorgione e Tiziano, dalle tele di Velázquez, dall’uso dei colori di Goya.
Proprio a quest’ultimo si ispirò per realizzare Il Capolavoro esposto nella penultima sala, per il quale avrei volentieri pagato il biglietto anche solo per accedere unicamente a quell'opera.
Vi svelerò l’identità di tale bellezza più avanti, ora procediamo con ordine.
Le aspettative che si creano leggendo un nome così “di grido” sul cartellone pubblicitario sono davvero molte. Manet è conosciuto da tutti, se non per passione personale, sicuramente perché è una tappa fondamentale dello studio di storia dell’arte a scuola e talvolta capita persino, per distrazione e somiglianza fonetica, di confonderlo con Monet!
La mostra si apre con una contestualizzazione storica, dunque, molto apprezzabile ed utile per capire le tappe fondamentali della vita del pittore (qualora si fossero sbadatamente dimenticate le lezioni al Liceo).
Le sale affrontano svariati temi, dalla ritrattistica in cui è possibile ammirare la bella presunta amante dell’artista, Bertha Morisot (la quale compare come modella in moltissimi dipinti); alla pittura di cronaca in cui è interessante il dipinto che immortala la scena della fuga di Rochefort dalla colonia penale di Nuova Caledonia, in cui era stato rinchiuso per essersi opposto al regime di Napoleone III. Osservando questi dipinti sono numerosi gli spunti che balzano alla mente. È divertente vedere la moda del tempo e come alcuni accessori siano di nuovo in voga ed anche le citazioni artistiche sono innumerevoli.
Quando si parla di pittura che ritrae scene realmente accadute, romanzandole, non si può non pensare alla "Zattera della Medusa" di Theodore Gericault. Imbattendosi nel soffitto originario della sala dell’Opèra di Parigi affrescato da Lenepveu, è diretto il richiamo alla "Camera degli Sposi" del Mantegna a Mantova, per non parlare delle influenze reciproche tra gli stessi artisti di quel periodo, esplicitate durante tutto il percorso.
È infatti punto di forza della mostra, quello di effettuare numerosi confronti tra pittori dell’epoca, è curioso osservare soggetti simili resi con stili diversi. Ciò che invece delude è trovare tematiche sconnesse tra loro e a volte poco logiche. Vedere una sala dedicata al fiume “La Senna”, poi una all’architettura parigina del secolo e poi di nuovo all’Opèra di Parigi, per poi passare alle scene di vita mondana. Oppure, trovare nella sala che tratta le influenze spagnole di Manet, un quadro del tutto fuori tema. O ancora, imbattersi in sale senza neanche un’opera dell’autore a cui la mostra dovrebbe essere dedicata.
Il risultato è stato per me e i miei amici, sconfortante. Siamo andati a visitarla un giorno in pausa pranzo carichi di entusiasmo, sperando di vedere una retrospettiva di Manet e ci siamo ritrovati alla sua caccia al tesoro.
Come accennato all'inizio, l’unica sala che mi ha impressionata positivamente e che mi ha consolata dalla delusione maturata fino a quel momento, è quella dedicata ai candidi abiti delle Signore dell’epoca, in cui è esposta una tela incantevole: “Il balcone”.
Quest’opera è una vera gioia per gli occhi. La composizione della scena è equilibrata, ci sono tre figure al centro ed una sullo sfondo, incorniciate dalla ringhiera verdone del balcone e dalle persiane sempre di colore verde brillante. Lo sfondo è scuro, cupo e ritrae l’interno di un’abitazione inghiottito dalle ombre, mentre le tre figure in primo piano si stagliano come macchie di colore chiaro. Le due donne sono pallide e luminose, l’uomo è vestito di scuro. La delicatezza degli abiti candidi e quasi evanescenti contrasta con la pittura materica tipica dell’artista. In tutti i quadri di Manet è possibile ammirare come la profondità della scena e la concretezza dei soggetti ritratti non siano dati da precise regole di disegno, talvolta completamente ignorate, neppure dalla prospettiva e tantomeno da ombreggiature, quasi del tutto assenti. Quel senso di palpabilità è dato interamente dal colore. Nelle tele di Manet è il colore che fa tutto. Questo lo si può osservare dalle sue peonie bianche nella sala delle nature morte, dal giovane pifferaio (icona della mostra) e dagli abiti di tutti i suoi soggetti.
Questo aspetto è enfatizzato a tal punto da far sembrare le figure bidimensionali, senza però perdere neanche un briciolo di contatto con la realtà. Tutto è estremamente vivo e vero.
Altro incantevole dettaglio de Il balcone sono gli occhi. Solo quelli della figura in primo piano sono ben definiti e ci osservano sfacciati (gli stessi occhi della famosa Olympia, che scandalizzò i suoi contemporanei). Gli altri sono appena accennati. Ella è probabilmente ancora Bertha Morisot, musa dell’artista.
Mentre le altre sale le abbandonavo più o meno indifferente, da questa penultima non me ne sarei mai più voluta andare. Se la maggior parte delle opere provengono dal Museè d’Orsay di Parigi, non rimane altro da fare che comprare subito il biglietto aereo per vedere il resto!