di Valentina Trentini
Mancano pochi giorni alla conclusione della mostra “Metal Panic” dedicata a Marcello Maloberti, realizzata al PAC di Milano.
Con questa esposizione il PAC prosegue la sua ricerca sulla generazione di artisti contemporanei italiani nati negli anni Sessanta.
Ma c’è qualcosa che distingue questa mostra dalle altre, qualcosa di profondamente insito in ogni opera: l’artista ha voluto affondare le sue radici a Milano, prendendo oggetti dalle strade, dalle case, e risignificandoli.
Nessuna opera è quello che sembra. Per comprenderne il significato non basta guardarle, perché, all’apparenza, potrebbero sembrare oggetti qualsiasi, posati a terra come per sbaglio. Ma poi, chiedendo alle opere il permesso, dialogando con esse, lasciandosi travolgere dalle infinite potenzialità di significato, ne cogliamo un senso nuovo, carico di una vena artistica data dallo spazio in cui ci troviamo.
E così vediamo “M”, un’opera del 2024 costituita da un cartello stradale di ingresso a Milano, che segnala, data la sua posizione come prima opera, l’inizio della mostra. La particolarità del cartello è che esso è rovesciato, ma soprattutto sospeso al soffitto, come fosse una soglia inaccessibile al pubblico. Lo spettatore viene invitato a proseguire, ma allo stesso tempo qualcosa lo blocca, lo incuriosisce, lo spaventa: il tentativo di essere accolti s’interseca alla necessità di andare oltre, in una dicotomia sradicante che lascia spazio all’immaginazione.
Alcuni ritengono che forse quest’opera rimandi, con il suo titolo, alla M di Mussolini, mentre la posizione ribaltata del cartello alluderebbe al corpo del dittatore, appeso a testa in giù in Piazzale Loreto prima della sua fucilazione.
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Se volgiamo lo sguardo alla nostra destra, ecco un nuovo invito, un fregio insolito ci chiede di soffermarci a comprendere il suo significato. In “Chance di un capolavoro” un elemento potenzialmente violento come le forbici viene depotenziato, addolcito con delle delicate piume d’oca bianche appese alla punta di ciascun paio. La forza dell’oggetto si mescola alla poesia delle piume, la durezza delle lame è contrapposta alla sinuosità della decorazione appesa ad esse. Coprire le punte potrebbe essere interpretato come un tentativo di neutralizzare con delicatezza un pericolo, ma così facendo viene snaturato il significato delle forbici. E quindi, prevale l’utilità di un oggetto o la sua possibilità di fare del male? Quando il dolore che qualcosa ci infligge è troppo rispetto al bene che ci può ipoteticamente dare?
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Maloberti è capace di prendere gli oggetti e stravolgerli, risignificarli, trovarne nuovi modi d’uso. Non solo le forbici, ma anche un fucile viene trasformato. In “Metal Panic”, l’opera che dà il nome alla mostra, l’arte si rivela capace di trasfigurare un fucile in uno strumento musicale. Le canne si trasformano in una sorta di flauto di Pan e i suoni, generati con il soffio nelle canne, invadono lo spazio. La carica violenta del fucile viene indebolita, presa e rimodellata, resa suono, innocua, arte.
Proseguendo per l’ampio spazio illuminato ci troviamo di fronte a una serie di frasi, scritte a neon, come delle apparizioni, dei semplici aforismi, ma che, per ciascuno, possono essere molto di più. “Martellate”, così sono state chiamate.
Sono parole, ma non solo: sono dichiarazioni, d’amore, una richiesta di comprensione, una domanda d’affetto, ma anche atti poetici, una domanda d’interpretazione di quei pieni e quei vuoti che si alternano tra un neon e l’altro. Ognuno di noi ha il proprio modo di riempirsi e di riempire, di insinuarsi negli spazi che gli altri ci lasciano, di prendersi lo spazio che vogliamo. Ogni vuoto è un chiodo, ogni parola è una martellata.
Si riprende così la riflessione che fa da fil rouge alle opere: come bilanciare il dolore provocato dai vuoti degli altri con il bene delle loro parole?
Proseguendo per la mostra ci si imbatte ne “La vertigine della signora Emilia”, una lunga tovaglia a scacchi bianchi e rossi, accostata alla bandiera italiana. La tovaglia a scacchi viene elevata a opera d’arte, ma accostata alla bandiera nazionale diventa un sipario, dove recita l’Italia contemporanea, che si deve ancora costruire, ma allo stesso tempo restaurare. L’opera si presenta come una richiesta di infrangere gli stereotipi che pesano sulla società italiana, osservati con un po’ di amara ironia. L’artista dimostra per l’ennesima volta come un oggetto quotidiano possa avere molti più significati di quelli che gli attribuiamo tradizionalmente.
La mostra si conclude con tre ritratti di famiglia: “Famiglia metafisica”, “Casa” e “Famiglia Reale”.
Nel primo si vedono Maloberti con la madre e la nonna al centro del salotto di casa. La posa è regale, come fossero dei manichini posti nello spazio tradizionalmente destinato al tavolo da pranzo.
In “Casa”, la nonna dell’artista è accovacciata sotto il tavolo della cucina di casa. Il tavolo viene quindi risignificato, diventa una sorta di rifugio temporaneo, un nascondiglio per le minacce invisibili che si abbattono su ciascuno di noi. A metà tra dolcezza e angoscia, si stabilisce un gioco di parti tra soggetto e artista, tra nonna che invecchia e nipote che da giovane si fa adulto. “Casa” è un viaggio, dall’infanzia alla vecchiaia, ma senza dimenticarsi il ritorno.
Infine, in “Famiglia reale”, la nonna e la madre di Maloberti sono ritratte nel primo audio dell’artista. I vestiti uguali realizzati con una tovaglia ne esaltano la parentela, facendole sembrare gemelle disallineate in età. Lo sguardo è fisso verso la fotocamera. Gli occhi, magnetici, catturano lo spettatore. È un ritratto, ma pare surreale, forse proprio per la domesticità dell’ambientazione.
In ogni opera, Maloberti decide di andare oltre l’immediatezza della dimensione quotidiana, e chiede allo spettatore uno sforzo di astrazione, uno sguardo straniante, un tentativo di dialogo che va oltre le prime parole che vengono in mente nel guardare l’opera.
Ogni opera è un invito a far cadere i costrutti comuni su ciò che pensiamo di conoscere, e lasciarsi pervadere dalle infinite potenzialità di ciò che potrebbe essere.
Solo così potremo comprendere la molteplicità di significati che ci circonda. Solo così potremo comprendere che le definizioni storpiano, perché definire qualcosa dà per scontata la sua finitezza.
Ma si sa, l’uomo ha difficoltà con le fini. E forse, l’arte di Maloberti è proprio questo: una richiesta di infinito.