di Eleonora Confalonieri
Sardegna, da qualche anno a questa parte io e miei amici scappiamo dallo scintillante sfarzo della Costa Smeralda per discendere nel più selvaggio Centro-Sud. Quest’anno la prima meta è Oristano e io inizio il viaggio un paio di giorni prima. Erano giorni nervosi, l’aria era calda e insostenibile. Verifico il tragitto, c’è una sola strada che dal Nord - Est arriva a Oristano; due ore e qualche brutta canzone dopo, mi ritrovo con la macchina quasi impennata che prova a salire questa stradina ripida. In cima trovo il Museo Nivola. La vista è mozzafiato, ai piedi un antico paese sardo, di fronte un edificio bianco molto curato con ciotoli grigi a terra. Nella sala esterna, l’ex lavatoio con tetto a capanna, la Fondazione Nivola ospita gli artisti scelti dal vincitore del Premio Nivola, assegnato agli artisti che, attraverso la loro ricerca, incarnano nel contemporaneo lo spirito di Costantino Nivola. Quest’anno era allestita Pratza ’e domo. Una casa semiotica mai costruita, un progetto realizzato da Nairy Baghramian. Dell’allestimento mi colpisce subito il sottile confine tra arte e design, tra dimensione estetica e dimensione ornamentale, indagato attraverso opere volutamente ibride come la sedia-scultura Chaise L’Afghane (1987) di Janette Laverrière o il monumentale tappeto, tessuto a Samugheo da Mariantonia Urru, e la maniglia-scultura applicata a una porta nel cortile del museo.
Esco e sento un suono proveniente dal mio stomaco: è già quasi ora di pranzo.
Vento tra i capelli e volante alla mano mi avventuro tra queste stradine di una Sardegna sperduta, una Sardegna rada, gialla, verde, selvaggia, rurale, rustica, deserta. La mente si fa larga e la pancia vuota. Il secondo pin inserito nella mia mappa non indicava né un museo, né una mostra, era qualcosa di insolito: un semplice indirizzo. Cerco con google earth e non trovo niente. L’indirizzo portava ad una via qualunque di un paesino qualunque in mezzo al nulla dell’entroterra sardo. Le colline, i nuraghe, un lago lì vicino. Incerta e dubbiosa arrivo in questo paese di nome Sedilo, non so neanche bene come pronunciarlo Sèdilo, Sedìlo, chissà. Parcheggio e mi avventuro a piedi. Era l’ora di pranzo e il paese deserto, neanche un’anima in giro. Qualche finestra socchuisa e un caldo odore di cibo, tutto immerso in un silenzio assordante. Il cielo giallo, l’aria afosa. Le vie che percorro sembrano quelle di un presepio a grandezza naturale. Noto questa greca decorativa sulla facciata delle case, dei sassolini piccoli in fila indiana come formiche incastonati nella calce bianca che cementa una pietra dopo l’altra per formare le facciate esterne delle case. Seguo anch’io in fila come formica e quasi mi dimentico di alzare lo sguardo: da una casa all’altra si stende un filo al quale sono appese delle sagome, mi avvicino, sembrano oggetti organici, sono campanacci.
Era quella la mia meta, quel puntino sulla mappa: l’opera temporanea Campanacci del solstizio (Sos sonazos de primu istíu) realizzato dall’artista Virginia Russolo in occasione della mostra diffusa che porta 20 artisti emergenti diversi in 20 borghi italiani, Una Boccata d’Arte, progetto di Fondazione Elpis in collaborazione con Galleria Continua e Threes Productions. Il progetto di Virginia trae ispirazione da una tradizione carnevalesca di Sedilo poco nota ma sopravvissuta nella sua integrità: “Sa cursa de su puddu” (La corsa dei galli). Questo rito vedeva gli abitanti del borgo afferrare e decapitare al galoppo polli appesi a testa in giù su una corda tra due case.
Russolo immagina un intervento che parla specificamente alla memoria collettiva degli abitanti: sculture metalliche campaniformi sono sospese lungo un cavo su una delle vie del paese. Spiega Virginia Russolo: “Il Carnevale ci ricorda che una nuova vita può nascere solo dal completamento di un ciclo vitale precedente. Partendo da un rito sacrificale apotropaico di Sedilo, ho utilizzato grassi animali, ossa e la tradizione della fabbricazione dei campanacci per amplificare le tensioni che regolano la vita agro-pastorale.” Io stordita, leggo il testo riportato sulla parete sotto l’opera, scorgo le ossa, sento il suono delle campane agitate dal vento caldo, mi fanno quasi paura.
- Ma sono ossa?
- Si
- Ma sono vere?
- Sembra di si.
- Ma sono incastonate dentro ai campanacci?
- Si.
- Di che animale saranno?
- Di quello che ci mangeremo tra poco, ora saluta le campane e andiamo a pranzo.
Esclama la persona accanto a me.
Io con una curiosità crescente mi allontano per tornare alla macchina, mi volto per un altro sguardo, cammino, mi volto ancora, lancio un’occhiataccia.
Quelle sculture mi risuonavano in testa. Il mio malumore, il mal di stomaco, le ossa secche, il grasso viscido, le piante grasse, il metallo deforme, il filo tirato, le figure appese e la forza di gravità pesante. L’opera di Virgina Russolo mi ha lasciata stranita, rapita, affamata.
Sembrava una fine.
Sembrava un inizio.